Blog

13 Luglio 2017

GUERRA PER IL PETROLIO

Guerra per le risorse in Sud Sudan, petrolio e non solo. Padre Daniele Moschetti, per 6 anni Superiore dei Comboniani nel Paese, spiega a Vatican Insider (La Stampa) le ragioni di un conflitto che continua a mietere vittime e a spargere sofferenza e paura nella popolazione. Riproponiamo qui un estratto dell’intervista del giornalista Francesco Peloso.

 

Padre Daniele Moschetti, comboniano

Una situazione allarmante

«Oggi la situazione è catastrofica. Siamo a sei anni esatti dall’indipendenza e a Juba non ci sono state celebrazioni ufficiali come avveniva in passato. Siamo di fronte a uno sbandamento complessivo: c’è un crac finanziario gravissimo, la banca centrale non ha più dollari, c’è il 900% di inflazione. Il valore del denaro locale non ha nessun peso, tutto viene dall’estero, tutto ciò che si mangia, che si usa. A causa della guerra iniziata il 15 dicembre del 2013 e poi  quando nuovi scontri si sono verificati l’anno scorso a Juba, in luglio, ancor di più hanno lasciato il Paese ambasciate, Ong, volontari».

 

Insicurezza dilagante

«Molte organizzazioni sono andate via dopo gli scontri di un anno fa, anche se le più grosse poi sono tornate. Però fanno ancora più fatica, perché il governo non riesce a garantire la sicurezza per gli operatori umanitari presenti, per i missionari. Dicono: noi non garantiamo la sicurezza degli operatori, dei missionari, perché poi vengono attaccati e uccisi, e questo in particolare in zone dove si sta portando cibo, medicine. Così approfittano di questa situazione per dire che non hanno la possibilità di proteggere nessuno. Che tradotto significa: non diamo l’ok per portare cibo e acqua in queste zone perché manca la sicurezza. Si tratta di un modo subdolo per mettere in ginocchio le aree dove naturalmente ci sono ribelli, ma anche la popolazione».

 

Le radici della guerra in Sud Sudan

«È un conflitto molto complesso. Bisogna partire dall’indipendenza del Sudan avvenuta nel 1956. Prima il Paese era una colonia inglese. Già a quell’epoca c’era un gruppo di sud sudanesi che poteva prendere in mano la propria indipendenza nei confronti del nord, invece gli inglesi hanno lasciato tutto nelle mani del governo del Khartoum che diede il via al processo di islamizzazione. Di conseguenza tutti i missionari, cattolici e protestanti, sono stati buttati fuori nel ’64. E proprio questo processo ha mobilitato l’America. Il Sud Sudan, l’obiettivo di raggiungere la sua indipendenza, ha infatti sempre messo d’accordo repubblicani e democratici degli Stati Uniti. Gli Usa hanno investito per questa ragione miliardi di dollari dagli anni ’70 e ’80 fino ad oggi, tutte le amministrazioni americane hanno sostenuto l’Splm (Sudan People’s Liberation Movement), ovvero l’esercito di ribelli che lottava contro Bashir, criminale internazionale al potere dal 1989 con un colpo di Stato».

 

Interessi internazionali

«Il Paese è stato attraversato da 40 anni di guerra, intervallati da dieci anni di relativa pace. Ma negli anni ’70 è scattata una sorta di caccia al petrolio, era infatti la stagione dell’austerity da noi, della circolazione a targhe alterne per risparmiare carburante. Così quando l’Opec, i Paesi arabi, hanno detto “basta non c’è più petrolio per voi”, sono cominciate le ricerche di nuovi giacimenti e sono stati trovati anche quelli in Sud Sudan. Da quel momento è iniziata la seconda guerra interna. Era il 1983. Da una parte, c’erano le grandi multinazionali europee e americane che volevano sfruttare le nuove risorse; dall’altra, il governo di Khartoum che non voleva mollare ciò che considerava suo. Allo stesso tempo il governo traeva dalla ricchezza del Sud le risorse per sviluppare il Nord lasciando però nell’arretratezza le regioni meridionali, senza scuole, in piena povertà. Da qui la lotta per l’indipendenza del Sud Sudan guidata dallo Splm, fino agli accordi firmati il 9 gennaio del 2005 a Nairobi, dove venne scelto un nero come vicepresidente dell’intero Sudan – e questa era una novità importante – John Garang, fondatore dell’Splm».

 

Sudan e fondamentalismo islamico

«Ai tempi di George W. Bush, il Sudan, era inserito fra le nazioni “canaglia”, perché da lì parte Osama Bin Laden fra l’altro. Bin Laden ha formato i primi gruppi militari, terroristi, esattamente a Khartoum. I primi attacchi ideati da Osama Bin Laden e messi in opera di Al Qaida non sono stati quelli contro le torri gemelle di New York, ma furono realizzati contro le ambasciate americane a Nairobi (Kenya) e a Dar Es Salaam (Tanzania), il 7 agosto 1998 (224 le vittime e circa 4mila feriti). Il primo attacco, dunque, è stato in Africa, all’interno del continente non fuori di esso. La risposta furono raid americani a Khartoum. Quindi il Sudan è stato sempre sulla lista nera e oggetto di embargo. La parte sud del Paese, quella che rientra nell’Africa nera (il nord è arabo, ndr), è cristiana al 50%, ci sono il 7 -8% di musulmani non fondamentalisti e poi animisti».

 

Indipendenza e grandi risorse

«Museveni, presidente dell’Uganda che è un grande alleato degli Usa, così come il Kenya, indubbiamente hanno tratto vantaggio dal processo di indipendenza. Ma del resto tutti i Paesi che confinano con il Sud Sudan hanno grossi interessi. Il Paese ha infatti grandi risorse, non c’è solamente petrolio – in questo momento è il terzo giacimento dell’Africa – ci sono anche acqua, e terre vergini. Oggi celebriamo un’indipendenza che il leader principale del Sud Sudan, Garang, non aveva mai voluto; al contrario Salva Kiir e altri gruppi militari sostenuti dagli Stati Uniti hanno sempre voluto che il Sud si sperasse dal Nord. In ogni caso l’unità del Paese era il tappo all’islamizzazione dell’Africa.
Dentro questo conflitto c’è dunque un po’ di tutto: c’è il petrolio, c’è l’acqua, c’è l’agricoltura da poter sviluppare. Poi ci sono tanti interessi dei Paesi circostanti che hanno meno risorse. È come il Congo che è il Paese più ricco al mondo di risorse e purtroppo è fra i più poveri. Queste ricchezze diventano delle maledizioni, non diventano una benedizione per il popolo ma un arricchimento delle élites. E infatti tutti quelli che oggi sono al potere sono militari che ormai hanno messo la cravatta e conservano milioni di dollari sui loro conti in America in Inghilterra o altrove. Le loro famiglie vivono fuori dal Paese».

 

I missionari in Sud Sudan

«Noi siamo in Sud Sudan dai tempi di Daniele Comboni, il nostro fondatore, che vi andò nel 1858. Siamo nati in missione, e ci consideriamo parte integrante di questa storia, di questo popolo. Non siamo mai andati via, se non quando ci hanno espulsi, ma siamo sempre rientrati e abbiamo camminato insieme a questi popoli, passando da situazioni di schiavitù prima, poi per le varie guerre, il colonialismo, l’islamizzazione, e ora i nuovi conflitti civili e per il petrolio. Abbiamo perso due missioni negli ultimi anni, dal 2013 al 2017, perché ci arrivano tutti: i governativi, i ribelli. Due missioni importanti per noi dove facevamo formazione umana e spirituale, ma tutto è stato distrutto a causa della lotta fra governativi e ribelli. La gente è scappata. Ci sono un milione di sfollati solo in Uganda, poi tanti nella zona più fertile, nella provincia di Equatoria, dove le etnie locali non volevano in nessun modo entrare in guerra. Ma la pressione del governo e dell’etnia dinka che ora detiene il potere militare ed economico ha esasperato la situazione. In Sudan ci sono centinaia di migliaia di profughi, in Etiopia quasi un milione, in Kenya circa mezzo milione. In questi mesi sono in Italia e vedo parlare della grande emergenza migranti, mi fa rabbia e ridere allo stesso tempo. I Paesi africani si stanno portando milioni di persone sulla propria pelle».

 

Il ruolo delle potenze straniere

«Americani inglesi, francesi, cinesi, russi e grandi multinazionali hanno interessi in Sud Sudan. È stata chiesta 4-5 volte l’introduzione dell’embargo delle armi, ma Paesi come Russia e Cina sono contrari e direttamente o indirettamente ostacolano questa misura. Si tenga conto che il governo del Sud Sudan nel 2014 ha speso un miliardo di dollari in armamenti e ipotecato pozzi di petrolio che in questo momento non ha ancora aperto. Stanno svendendo il Paese per avere armi e schiacciare la ribellione, non pensano minimamente al futuro alla loro gente.

 

Il viaggio del Papa

«Papa Francesco doveva andare ad ottobre in Sud Sudan insieme all’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, primate anglicano, ma la visita è stata spostata per motivi di sicurezza. Sarebbe però un viaggio importantissimo perché le Chiese stanno facendo un gran lavoro e sono le uniche istituzioni credibili; la comunità internazionale prima ha dato credito al governo, poi ai ribelli. L’unico baluardo sono le Chiese le quali fanno un gran lavoro di lobbying, advocacy e informazione, perché le parti in lotta non vogliono che si sappia quello che sta accadendo nel Paese così possono andare avanti con atrocità mai viste. Serve una presa di coscienza più profonda della comunità internazionale. Neanche i campi profughi sono al sicuro, neanche quelli protetti internazionalmente, anche lì sono entrati soldati e hanno fatto strage di donne, anziani, bambini».

 

(fonte: La Stampa, 12 luglio 2017)

News dal Sud Sudan
About Laura