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14 Marzo 2013

La Repubblica del Sud Sudan

di Anna Pozzi.


Benvenuti nel 54° Paese dell’Unione Africana. Un enorme cartello, sull’unico ponte che attraversa il Nilo, a Juba, dice in una frase l’immenso orgoglio di un popolo e di un Paese tutto nuovo: il Sud Sudan. Data di nascita: 9 luglio 2011.
Un anno fa era solo un sogno. Pochissimi avrebbero scommesso sulla nascita di questo nuovo Stato, ritagliato col sangue e la devastazione dal grande Sudan. Ci sono volute due guerre – dal 1955 al 1972 e dal 1983 al 2005 – per arrivare a questo traguardo. Ci sono voluti, soprattutto, due milioni di morti, solo nella seconda fase del conflitto, e quattro milioni di profughi e sfollati per arrivare a una pace fragile siglata a Nairobi il 9 gennaio 2005. E per costruire, in pochi anni, con pochissimi mezzi e molte avversioni e avversità, un Paese che oggi ricomincia da zero. Tutto da costruire. Ma finalmente libero.

C’è un entusiasmo come non lo si respira più da nessuna parte in Africa. Giovani, donne, i pochi anziani di un Paese dove l’età media è di 18 anni (in Italia 43!), persino i militari che sono meno burberi che altrove, lo ripetono incessantemente con sorrisi contagiosi e fieri: finalmente liberi!
Certo, l’emozione collettiva non cancella i problemi e i disastri. Il Sud Sudan risorge dalle macerie di una guerra che ha azzerato tutto. Basta uscire da Juba per rendersene conto. A Rumbek, capitale del Lakes State, stanno costruendo il primo edificio a due piani. Ma attorno ci sono ancora tutti i segni della distruzione. Qui per molti anni è stata la Chiesa e l’opera infaticabile di mons. Cesare Mazzolari a garantire i servizi primari: scuola e sanità. E aiuti d’emergenza per le carestie, quando la ferocia della natura aggiungeva morte alla sofferenza provocata dalla ferocia dell’uomo.

Nel Western Equatoria le cose vanno ancora peggio. Quello che potrebbe essere il granaio del Sud Sudan è destabilizzato dalla presenza di gruppuscoli di ribelli ugandesi del Lord’s Resistance Army (Lra) che hanno spostato qui la loro furia devastatrice, costringendo metà della popolazione ad abbandonare case e campi. Con la fame che oggi è sempre in agguato.
Se si guardano i dati, poi, il quadro appare quasi disperante. Il Sud Sudan vanta una serie di primati negativi che lo pongono agli ultimi posti di tutte le classifiche dello sviluppo. Il 90 per cento della popolazione (8,8 milioni) vive con meno di un dollaro al giorno. La mortalità infantile è del 126 per mille, quella materna di 2.030 donne ogni 100 mila, la più alta al mondo; il 48 per cento dei bambini al di sotto dei cinque anni è malnutrito; solo il sei per cento della popolazione ha accesso all’acqua pulita e ai servizi sanitari. L’istruzione è un disastro: solo il 16 per cento dei bambini frequenta la scuola primaria e un insignificante 2,4 per cento quella secondaria. L’agricoltura è praticamente inesistente: solo l’1 per cento della terra è coltivato e quasi tutto viene importato a prezzi esorbitanti e inaccessibili per la popolazione.
La guerra ha lasciato dietro di sé non tanto e non solo distruzione materiale. Ha lasciato il niente.
Sei anni di pace relativa hanno permesso di fare qualche passo in avanti. Ma è solo oggi, archiviate le grandi celebrazioni del 9 luglio, che il Paese cerca finalmente di voltare pagina.
Inutile nasconderselo, l’indipendenza del Sud Sudan nasce condizionata da molti rischi e incognite. I negoziati post referendum con il governo di Karthoum hanno conosciuto una fase molto critica lo scorso marzo quando il partito di governo sudsudanese, il Sudan Peoples’ Liberation Movement (Splm) ha lasciato il tavolo dei colloqui, accusando il Nord di fomentare e finanziare alcune milizie che stanno destabilizzando il Sud.
Il problema della sicurezza e dell’unità è ai primi posti dell’agenda del governo. Il Sud Sudan è tutt’altro che una nazione unità, ma un insieme di etnie e tribù spesso rivali tra di loro che non esitano a combattersi, spesso per questioni legate al bestiame. Molti leader politici, inoltre, continuano a mantenere proprie milizie pronte a scendere in campo laddove le proprie aspirazioni di potere vengono frustrate. E così nel solo mese di marzo sono morte almeno cinquecento persone in diverse zone del Paese, dallo Stato di Jonglei, all’Unity State sino alla città di Malakal, mentre serie minacce di ribellione nascevano anche nel Bahr el Ghazal.
Una questione a sé è quella dello Stato di Abyei, per il quale la Corte dell’Aja ha emesso un arbitrato che delimita i confini, accettato dal Sud ma rigettato dal Nord.
Resta aperta anche la questione del petrolio che rappresenta il 98 per cento del budget del Sud, ma che è raffinato ed esportato attraverso il Nord.
Altro nodo critico, quello dell’acqua del Nilo, che potrebbe diventare un altro tema spinoso di negoziazione, coinvolgendo pure l’Egitto.
Inoltre, non è ancora stata risolta la questione della spartizione del debito estero, che ammonta a 38 miliardi di dollari e di cui il Sud non vuole farsi carico, sostenendo che il Nord l’avrebbe contratto per fargli guerra.
Infine, il tema della cittadinanza. Secondo Refugees International, ci sarebbero ancora circa 22 mila sfollati sudsudanesi al Nord e non tutti faranno ritorno al Sud. Il governo di Karthoum sembra reticente ad attribuire loro la doppia nazionalità e anzi sarebbe propenso a fare del Nord uno Stato esclusivamente musulmano, dove la sharia sarebbe l’unico sistema giuridico. Un atteggiamento che preoccupa anche la Chiesa cattolica nel Nord, che teme un ulteriore giro di vite che potrebbe minacciare la sua stessa presenza.
Eppure… È vero, la lunga marcia verso la libertà non è ancora finita. Anzi, per molti versi comincia proprio adesso. Ma è una marcia in cui il popolo sudsudanese può e deve essere protagonista. E a ragione oggi può dire: «Benvenuti nel 54° Paese dell’Unione Africana. Finalmente liberi!».

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