05/05/2016 – Il leader dei ribelli, Riek Machar, è rientrato in patria per recuperare il suo incarico di vicepresidente del Sud Sudan, e il 29 aprile è stata annunciata la formazione di un governo di unità nazionale che dovrebbe traghettare il Paese verso nuove elezioni entro 30 mesi.
Un esecutivo di transizione formato da 16 ministri nominati dal presidente, Salva Kiir, 10 ministri della fazione di Machar e 4 dei partiti minoritari di opposizione. I ministeri della Difesa e delle Finanze sono rimasti in mano al presidente Kiir, mentre all’ex ribelle Dak Duop Bichok è andato l’incarico di ministro del petrolio, unica fonte di introiti del Paese. All’opposizione è stato assegnato il dicastero dell’agricoltura e della sicurezza alimentare, decisivo per un Paese, come il Sud Sudan, afflitto da carestie e siccità e dove almeno 5 milioni di abitanti vive di sussidi alimentari.
Premesse, queste, che fanno ben sperare in una definitiva concretizzazione dei trattati di pace siglati ad agosto e finora rimasti sulla carta, anche se la rivalità tra le due fazioni – governativi e ribelli – resta alta e i frutti della convivenza rimangono tutti da provare.
Gli scontri in Sud Sudan sono iniziati due anni dopo la proclamazione d’indipendenza, nel 2013. Kiir aveva accusato Machar di aver pianificato un colpo di Stato per far cadere il suo governo, innescando disordini e guerriglie interne tra le due principali etnie del Paese: i Dinka, gruppo dominante a supporto di Kiir, e i Nuer, alleati di Machar. Ne sono seguiti 25 mesi di scontri etnico-tribali, con migliaia di morti e oltre 2 milioni di sfollati, su una popolazione totale di 11 milioni di persone.
Il 26 agosto 2015 le parti in lotta sono state spinte a firmare un accordo di pace, sotto la pressione della comunità internazionale, le minacce incombenti di pesanti sanzioni economiche e l’embargo sull’acquisto di armi al governo del Sud Sudan. Il patto prevedeva la fine immediata dei combattimenti e la deposizione delle armi da parte dei soldati entro 30 giorni, la liberazione dei prigionieri e dei bambini-soldato, la demilitarizzazione della capitale Juba e la formazione di un governo di unità nazionale chiamato a guidare il Paese fino a nuove elezioni.
Pur non avendo rispettato tutte queste condizioni, ora i politici sembrano aver raggiunto un compromesso. Ma il Sud Sudan deve ancora affrontare gli enormi strascichi di un conflitto in cui entrambe le fazioni hanno commesso atroci violenze e violazioni dei diritti umani, generando una crisi umanitaria seconda solo a quella siriana.
(fonte: LookOutNews)